Che fatica scrivere! È la fatica del concentrarsi, dello stare a lungo sullo stesso pezzo, la fatica dell’uscire dal turbinio degli stimoli a ricompensa immediata nel quale ci perdiamo da mane a sera e, per chi ha qualche anno sulle spalle, è anche la fatica del ricordarsi come si fa, cercare di tornare alla velocità di prima, la velocità del mondo perduto pre-social (quel ricordo che ci fa sembrare vecchio, boomer il solo rallentare).
Come facevamo prima? Come faremo, oggi?
Leggere per riprendersi la testa, scrivere per vedere se funziona ancora; esercitare la nostra attenzione, provare a vedere se siamo capaci di consumare e produrre testi più profondi di un reel, di un meme, di una gag.
E poi la domanda fatale: a che pro fare attenzione nell’epoca e sui mezzi della distrazione di massa? A che pro sviluppare testi lunghi che pochi consumeranno e che tutti confonderanno con il rumore della sovraproduzione di senso in cui siamo immersi (e lo sappiamo che succederà, succede con noi che quando ancora ci immergiamo sappiamo che di quell’immersione dovranno emergere storie fulminee se vorremo dirla a qualcuno, così che anche del testo lungo rimarrà l’aneddoto).
Che beffa. Una fatica benefica ma che ci penalizza, ci estromette, ci isola e, in ultimo, ci frustra. L’algoritmo non vorrebbe vederci così, non vorrebbe che cercassimo di resistergli e se lo facciamo si rattrista. Per fortuna ce lo fa notare. Le piattaforme ti incoraggiano se produci ad alta frequenza (e conseguente bassa profondità) e ti fanno presente se c’è qualcosa che non va, se l’ottimizzazione inciampa, se ti incastri, o incanti, senza pubblicare.
La macchina che ha imparato a darci da mangiare quel che la pancia brama ora ci suona il campanellino se non la sfamiamo.
Vorremmo, anzi dobbiamo dire. Possiamo farlo, che occasione senza precedenti! Possiamo farlo tutti e tutti diciamo, cantiamo, scriviamo, balliamo, opiniamo, fotografiamo, filmiamo, giochiamo, suoniamo tutti. Tutti possiamo produrre contenuto, per farlo però dobbiamo solo ricordarci di non fare altro.
Pensate che momento sprecato quello di silenzio. Pensate a una persona seduta su di una poltrona, senza nessun device digitale in vista, con un libro in grembo e intenta a leggere per ore. Nell’altra stanza, che getta lo sguardo senza osare avvicinarsi, bullizzato da questo atteggiamento sconsiderato, versa qualche lacrima l’algoritmo che gliel’ha pur detto di ottimizzare ma quella, la persona col libro, niente, non ne vuole sapere. Lui piange e lei continua, sta altrove, scrollando pagine anziché spasmi di tiktoker. Potrebbero passare ore, giorni, settimane e quella continuare a non cliccare, a non postare, a non socializzare, a non dibattere.
A che serve tutto questo ben di dio di mezzi oliatissimi del dire se non gli dai la vita? L’economia deve girare e tu non vorrai essere lo stronzo che non esiste. Certo, esisteresti per una frazione di secondo entro lo sguardo distratto di uno sconosciuto, ma questo è rimasto dell’esistere. Esistere meno, esistere tutti. Molto, molto meno e tutti tutti tutti, nessuno escluso. Esistiamo tutti, ma per riuscirci è rimasto un centesimo di secondo a testa. Meglio del nulla, no?
Sì perché scrivere, leggere e cercare gli stacchi lunghi per i viaggi profondi, quelli che non si condividono con riassunti ma semmai con discorsi ancora più lunghi, è diventato equivalente al nulla, al silenzio. “Che fine hai fatto?”, ti chiederebbe l’algoritmo (o il follower che lo esegue) se sparissi per un po’. Dove sei stato? Hai prodotto almeno un contenuto di dove sei stato o almeno dei video, delle storie per dimostrare che non avevi smesso di dire, che stavi solo prendendo la rincorsa per dire di più? Puoi sparire, d’accordo, ma solo se è per stare a tavolino a programmare una schedule, a editare per pubblicare meglio (ma dovresti delegare, per pubblicare sempre, o semplificare, per pubblicare sempre, o streammare irl, per pubblicare sempre).
Incessantista sinché la vita cessa. Qualche impressione dentro sguardi distratti, ciascuno per ciascun altro, miliardi di volti come fossero uno solo, nebuloso e inafferrabile. Il volto di un mondo evaporato, che non si può fermare.
Fermate il mondo, voglio scendere!
E poi voglio leggere, scrivere e fare le cose che non c’è tempo di dire a nessuno. Anzi, meglio, c’è tempo di dirle a chi ha tempo per ascoltarle, quindi a quelli che sono scesi anch’essi dal mondo. Un mondo di scesi dal mondo.
Fermarsi, prendere grossi pezzi di tempo tutti interi, starci dentro insieme senza guardare bacheche. E guai a semplificare, a velocizzare questo mondo, sennò riparte la macina; guai a ottimizzare, è già grave guardare l’orologio: il tempo lungo dei testi lunghi, slow food per la mente, dura esattamente quanto deve durare.