Il populismo dovrebbe offendere il popolo, quel popolo che umilia riducendolo a massa unanime, e invece lo fomenta. Da un punto di vista del consenso, funziona (anche se può avere le gambe corte e dover cambiare oggetto o imbonitore).
Il populismo, che punta al minimo denominatore sociale per catturare quante più persone possibili, non è altro che la vendita travestita da politica.
Su internet, la comunicazione è populista al di fuori della politica perché si sostiene solo in quanto vendita sotto mentite spoglie.
Oggi, il “popolo” della vendita sono i fan.
Ci si rivolge ai fan, gli si fa credere che condividano gli interessi delle aziende venditrici per far dimenticare loro che non sono altro che l’estremo di una transazione, quello che paga (vs. l’azienda o chi per essa lavora, che, al contrario, incassa).
Il fan percepisce come propri i successi altrui e la sua fidelizzazione (garanzia di un alto tasso di conversione) è facilitata dalla figura intermedia dell’influencer, testimonial surrettizio il cui privato reso pubblico appassiona i follower come fosse il loro istituendo una intimità fittizia (fittizia in quanto pubblica, di libero accesso e non reciproca).
Come il popolo e in quanto popolo, il fan è felice di essere ridotto a fan ed è gratificato dall’appartenenza al fandom. Appartenere a un gruppo, votarsi a esso e difenderne i principi affranca dal pensiero critico (che comporta la non-appartenenza) e consente di delegare la riflessione agli opinion leader di turno (che qui riflettono il marketing delle aziende di turno).
Come nel populismo politico, si giustifica e difende la sottomissione del proprio giudizio attraverso la militanza, ovverosia la difesa, su base volontaria e gratuita, dei dogmi che il gruppo di appartenenza tiene sacri.
Chi è il nemico dell’imbonito? Apparentemente, il credulo di un idolo rivale, ma la rivalità fra dogmi corrobora il dogmatismo come unico modo possibile di stare al mondo ed esiste una solidarietà fondamentale, anche nelle guerre fra tifoserie avverse, fra chi condivide la delega nell’appartenenza. Se non il merito, i creduli condividono il metodo.
Il vero soggetto inaccettabile per il popolo dei fan è l’incredulo, colui che ha per metodo il pensiero critico e che pratica la non-appartenenza che esso comporta. Privo di un nocciolo duro di principi non negoziabili, l’incredulo osserva, fatalmente da fuori, le modalità di reclutamento dei gruppi dogmatici e i loro meccanismi di difesa.
La sottomissione del proprio giudizio ai dogmi di un gruppo cui votare militanza è qualcosa di così radicato nelle culture della nostra specie che viene spontaneo domandarsi se non ci sia letteralmente connaturato. Quale che sia la risposta, l’impresa scientifica incarna, indipendentemente dalle caratteristiche personali di chi vi contribuisce, la possibilità che ci siamo dati di sottoporre le nostre credenze alla revisione e alla smentita mediante un metodo di cui possiamo fare tesoro anche al di fuori della scienza.
La disposizione, anti-ideologica, a cambiare ciascuna delle proprie convinzioni mercé il rinvenimento di buone ragioni per farlo ci consente di essere liberi in quanto individui (prima di tutto, liberi di sbagliare). La fede istituisce un nucleo ideale affrancato dalla possibilità dell’errore; la scienza ispira una condotta che rende curiosi di scoprire dove si stia sbagliando. Questa attitudine autocritica che non lascia stare, perché la interroga, nessuna pacificazione (e che si fa critica dal momento che nessuna credenza è solo propria) è anti-economica siccome produce troppo frequentemente, rispetto al lecito della vendita permanente, sconsigli per gli acquisti.
In ultimo, il destino di chi critica senza militare sarà sempre quello di essere ridotto a caso patologico, stranezza degna dell’ad hominem d’ufficio da parte di chi, per non toccare le credenze a cui si regge, non può dubitare di sé.